Come si legge anche sul saggio dedicato all’argomento La Memoria del Pane, vicende alimentari di un paese: S. Alberto di Ravenna (a cura di M. Grazia Felletti e Santino Pasi) non vi è letteratura infatti che sia in grado di datare la piadina, tanto meno di determinare la provenienza. Vero o no, un fatto è certo, l’antica piada (piatta, così definita perché resa sottile dal mattarello), negli usi dialettali modificata in pieda, piè, pijda, pij, pida, piadéna e piadina, dai primi anni dello scorso secolo, ha trovato il suo grande rilancio, grazie anche alla conquista delle terre donate poi all’agricoltura, che portano, anche nella Bassa Romagna, la coltivazione dei cereali. Dagli inizi del Novecento la piadina si nobilita ed evolve in virtù del reperimento di ingredienti quali: frumento, il mais, e poi ancora, lo strutto ed il lievito, solo per citarne alcuni. Col tempo, poi, si affinano e si personalizzano pratiche diverse di produzione, tanto da costituirne un vero e proprio “marchio territoriale”. La piadina, ancor oggi, scandisce i tempi della quotidianità (pranzo, merenda, cena), ma essa è anche sinonimo di amicizia e di convivialità.
Oggi, all’origine di questo piccolo prodigio gastronomico, ci sono solo un pugno di farina di frumento, una noce di strutto (oppure un filo di olio d’oliva), una spolverata di bicarbonato di sodio, una presa di sale e la quantità di acqua (o più raramente di latte) necessaria ad amalgamare il tutto. Perché però il piccolo “miracolo” possa compiersi, la preparazione deve rispettare alcuni crismi. Una fase cruciale è quella dell’impasto, se gli ingredienti sono ben misurati, e l’arzdora (massaia romagnola) sa il fatto suo, la reiterata manipolazione lo porterà alla corretta consistenza. Secondo i cultori della materia, in questa fase intervengono molti fattori di impossibile catalogazione, come ad esempio il ph della pelle di chi la prepara, che conferiscono alla futura piadina caratteristiche organolettiche speciali. L’abilità di una sfoglina (donna esperta nella pratica della sfoglia), però, si misura principalmente nel momento in cui “tira” la sfoglia, ossia la stende con e’ sciadur (il mattarello) sul tagliere di legno in modo da ottenere un perfetto tondo di spessore e diametro variabile a seconda della tradizione locale di riferimento.
Nelle zone montane, infatti, la piadina viene preparata più alta, più piccola e può essere tagliata trasversalmente per imbottirla. Man mano che si cala verso la costa e ci si sposta a sud, la piada diventa invece più sottile e si allarga. Per evitare che l’impasto si attacchi al legno, il mattarello viene di tanto in tanto cosparso di farina. La migliore piadina si ottiene cuocendola sul cosiddetto “testo” di terracotta, una sorta di teglia circolare, i cui migliori esemplari vengono tuttora prodotti a Montetiffi, sotto il quale deve ardere un fuoco “allegro”, perché il tempo ideale di cottura è breve. Mentre lievita, la piadina va poi sorvegliata per schiacciare con i rebbi della forchetta le eventuali bolle che dovessero formarsi. Nella consuetudine è però più frequente vedere le piadine cuocersi su lastre di pietra refrattaria o su piastre metalliche, come accade nelle sagre, negli eventi dedicati o negli innumerevoli chioschi (detti piadinerie), decorati da linee verticali, che punteggiano la Romagna, dove questa viene servita per accompagnare le pietanze al posto del pane o farcita con i più diversi ingredienti. Salumi, verdure, formaggi, salse; impossibile citare tutti gli abbinamenti, di certo, tuttavia, alcuni degli ingredienti più tradizionali sono lo squacquerone, tipico formaggio fresco di latte vaccino a pasta molle, le erbe cotte e la salsiccia alla brace. Non è insolito, però, vedersela proporre in abbinamento a sapori meno classici, come il prosciutto di cervo o il vitello tonnato.
Il territorio cervese è caratterizzato da una capillare presenza di chioschi dove si esercita l’attività di produzione e di vendita della piadina, che riprendono la forma delle tradizionali cabine balneari. Cervia è stata all’avanguardia sulla Riviera romagnola nella realizzazione di queste strutture. Sino agli anni Sessanta la piadina veniva consumata nelle trattorie di campagna o nelle case dove veniva preparata dalle azdore con i metodi tradizionali, poi nei luoghi di passaggio si sono diffusi più o meno spontaneamente, vari punti di vendita della piadina. Spesso l’attività veniva inizialmente esercitata utilizzando un semplice tavolo ed un ombrellone, che possiamo considerare l’antenato degli odierni chioschi.
Coloro che non temono le calorie in eccesso potranno provare anche le sue varianti più ghiotte: la piadina unta, quella fritta e la sfogliata, che risulta più friabile a causa del maggior quantitativo di strutto aggiunto all’impasto. Un’altra preparazione tipica è quella del cassone (detto anche cascione o crescione), in cui la sfoglia viene farcita, ripiegata e chiusa con i rebbi della forchetta prima della cottura. Tradizionalmente era preparato con il crescione (erba spontanea da cui prende il nome) e magari ulteriormente insaporito con aglio, cipolla, o scalogno. Attualmente vengono più spesso utilizzati spinaci e bietole, mentre nel Riminese si possono trovare imbottiti con le rosole (tipo di papaveri) macerate nel sale. Il cassone viene cotto anche con un ripieno di mozzarella e pomodoro o di zucca e patate, naturalmente con aggiunte a piacere.
In tempi più recenti la piadina ha assunto pure nuove forme, come il cosiddetto rotolo, preparato farcendo una piadina sottile che viene poi avvolta su se stessa. Se da sempre il suo gusto neutro le permette di sposarsi sia con i sapori salati sia con quelli dolci, alla classica piadina servita con le conserve di frutta oggi si sono sostituiti gli abbinamenti alla crema gianduia o ai fichi caramellati (con l’aggiunta di squacquerone). Questa sconfinata varietà di gusti e preparazioni fa quasi dimenticare che storicamente la piadina non era altro che un surrogato del pane diffuso tra i ceti più poveri. Con tale funzione ha attraversato i secoli; secondo alcune ipotesi accompagnava già il rancio dell’esercito bizantino, di stanza per secoli in Romagna. La prima testimonianza scritta che la riguarda risale invece all’anno 1371, quando nella Descriptio Romandiolae, il cardinal Legato Anglico de Grimoard ne fissa per la prima volta la ricetta: Si fa con farina di grano intrisa d’acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po’ di strutto. Nel periodo compreso tra il Cinquecento e l’Ottocento veniva preparata perlopiù con ingredienti impanificabili (spelta, fava, ghianda, crusca, sarmenti, mais…). Anche l’etimologia è incerta, ma i più riconducono il termine piada (piê, pièda, pìda) al greco πλακούς (focaccia).
Oggi la piadina romagnola è inserita nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani della regione Emilia-Romagna e le è stato attribuito il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta). Marchi a parte, quella piadina che a Giovanni Pascoli piacque definire “il cibo nazionale dei romagnoli” ha ormai superato i confini regionali, nazionali e persino continentali. Non c’è infatti angolo della Romagna dove non giri voce, vera o supposta, relativa a qualche conoscente che ha fatto fortuna aprendo una piadineria in Australia, in Sudamerica o in qualche altro lontano lembo di mondo.
Con la crescente attenzione che viene oggi dedicata ai prodotti enogastronomici tipici regionali come il Sale Dolce di Cervia, abbiamo pensato di unire tra loro le eccellenze del territorio ed è stata avviata una collaborazione con la Società Parco della Salina che ha permesso al nostro chiosco di impiegare il Sale Dolce di Cervia nell’impasto e nella farcitura delle piadine. Altri abbinamenti che proponiamo tra la nostra piadina e prodotti al Sale Dolce di Cervia sono con: la salsiccia passita di Malafronte, il prosciutto crudo Dolce Maggiore di Antica Pieve, i formaggi squacquerone e bucciato della Centrale del Latte di Cesena.